Brescia, la mafia dei centri massaggi Chiuse altre 8 attività: sequestri per 2,5 milioni. Sesso, ricatti e violenza

Corriere della Sera

 

Mara Rodella

OPERAZIONE «VENTO D’ORIENTE» DELLA LOCALE E FIAMME GIALLE

 

Chiuse altre 8 attività: sequestri per 2,5 milioni. Sesso, ricatti e violenza

 

Ha soffiato per parecchio, in città, il «Vento d’oriente». Da est a ovest, portando soldi, parecchi,grazie ai corpi schiavizzati di decine di ragazze che fluttuavano telecomandati. E tutto restava «in famiglia». Fino a quando l’uragano giustizia non ha spazzato via un giro a luci rosse che conta sedici persone cinesi (dieci donne e sei uomini) indagate a vario titolo per sfruttamento della prostituzione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, oltre che per associazione a delinquere di stampo mafioso.

 

Già, perché a tirare le fila del malaffare era proprio una famiglia cinese, che in città aveva creato un impero con i centri massaggi: otto quelli sequestrati nell’operazione interforze condotta da Polizia Locale e Guardia di Finanza, coordinata dal procuratore aggiunto Sandro Raimondi, certo che «solo tagliandone la forza patrimoniale e finanziaria si riescono a colpire queste persone. E l’obiettivo è intercettare tutta la rete dell’illecito nel Bresciano». I numeri, quelli dei capitali sporchi, in effetti, parlano da soli: un giro da due milioni e mezzo di euro tra immobili (dodici quelli sequestrati tra Brescia, Rezzato e Ospitaletto), auto di grossa cilindrata, aziende, quote societarie e rapporti bancari (2 milioni tra conti correnti e deposito titoli), oltre a 300 mila euro in contanti. Da via Oberdan a via Volta, da via Rodi a viale Sant’Eufemia passando per il centro, via XXV Aprile, è lì che i centri estetici sorgevano, quelli «che da sempre controlliamo sotto il profilo amministrativo, ma che sapevamo potessero nascondere ben altro…», spiega il comandante della Locale, Roberto Novelli.

Del resto, dalla «ricostruzione della filiera della violenza, dai componenti della famiglia fino alle vittime», è lì, nelle «stanze dotate di ogni comfort», che succedeva tutto: lì le ragazze arrivavano dopo essere state prelevate la mattina dalle abitazioni fatiscenti e degradate messe a disposizione dai capi, lì mangiavano, lì concedevano prestazioni sessuali a pagamento che potevano arrivare fino a 300 euro (da girare per lo più in cassa) stando al tariffario ufficioso riportato su bigliettini di carta, prima di essere riaccompagnate a casa. Dopo 14, 15 ore di lavoro, sette giorni su sette, come immortalato dalle telecamere. Un’indagine lampo, quattro mesi, ha tratteggiato quindi «i filoni patrimoniali e gli investimenti dell’attività criminale», rileva Raimondi. Era la violenza a generare il lusso: quella con cui le ragazze venivano intimidite e ricattate. Perché in Italia, certo, ci venivano per lavorare: «prima sottoscrivevano un contratto da estetista che consentiva loro la regolarizzazione, poi, sottobanco, firmavano un contratto capestro, in cinese, che riportava quelle vere, di condizioni di impiego, compreso il vincolo di non lavorare per altri che non appartenessero alla “famiglia”», spiega il colonnello Antonio Gallo, comandante del nucleo tributario delle Fiamme Gialle.

Solo una piccola parte delle mance restava alle ragazze. Che però una possibilità di riscatto l’avevano: conquistarsi la fiducia della «signora» significava poter diventare, a loro volta, responsabili di un altro centro massaggi. Guai a ribellarsi al patto d’onore, in gioco la vita di una madre rimasta in Cina, per esempio, o di un fratello. C’era famiglia e famiglia, insomma: quella di tipo mafioso, che custodiva centinaia di migliaia di euro da ripulire negli scatoloni di cartone o dentro agli armadi nonostante per il Fisco quasi non esistessero, e quella che per la figlia emigrata in Italia avrebbe voluto solo il meglio. «Una bella spallata alla criminalità organizzata», l’ha definita il vicesindaco Fabio Rolfi, evidenziando il ruolo della «collaborazione e l’interazione tra forze dell’ordine, voluta dall’ex ministro Maroni». E non finisce qui. Perché simili casi «si collegano con altri filoni, come l’immigrazione clandestina tramite false dichiarazioni di assunzione», osserva Raimondi, che da qui riparte: «l’azione investigativa dovrà prendere spunto da questi elementi per controllare i flussi migratori». Buona parte l’operazione «Vento d’oriente» l’ha spazzata via.

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