Daniele Cologna: “Il far west del tessile, un mostro creato da noi italiani”

Attualità

La Repubblica

Cosi’ parla lo studioso di cinese e fondatore dell’agenzia di ricerca sociale “Codici”
di ZITA DAZZI

Daniele Cologna, ricercatore di cinese presso l’università dell’Insubria e fondatore dell’agenzia di ricerca sociale Codici, la situazione di Prato è unica o in Italia ci sono altri casi simili?
“A Prato c’è un’altissima concentrazione di cittadini cinesi, ma lì, i connotati di questa presenza sono singolari perché è solo in questa area che l’impresa cinese ha un carattere manufatturiero. Altrove, e penso a Milano, i cinesi sono 50mila, una delle principali comunità migranti, e si dedicano nell’80 per cento dei casi al terziario. Hanno bar, ristoranti, tintorie, edicole, negozi di estetica o di alimentari, fanno i parrucchieri, i calzolai. Ma sempre più raramente lavorano nei laboratori clandestini”.

Come mai a Prato i cinesi, invece di essere nel terziario, sono operai tessili e vivono in una condizione di semi schiavitù?
“Il contesto pratese è l’unico in Italia dove le imprese controllate da cinesi hanno un controllo di filiera, cioè occupano diverse posizioni gerarchiche nel processo di produzione del pronto moda. È un’anomalia che si basa sullo sfruttamento di una manodopera ricattabile, vittima di un sistema di un mercato impazzito”.

Però sono i titolari cinesi a sfruttare i connazionali, o no?
“A Prato si verifica un modo tipicamente italiano di relegare il lavoratore in fondo alla scala sociale e dell’economia: per stare dentro a un mercato concorrenziale, si produce con l’imperativo di comprimere i tempi e i costi per conservare un margine di profitto e mantenere gli impegni presi sugli ordini. I cinesi hanno saputo risalire la filiera produttiva, sono titolari delle ditte, ma lavorano per conto terzi per gli italiani, che sono doppiamente conniventi”.

Cioè?
“Sono gli italiani a dettare tempi e prezzi capestro per gli ordini  –  20mila capi in pochi giorni a 50 centesimi al pezzo  –  e sono italiani quelli che affittano i capannoni. E pur sapendo benissimo quel che avviene in quei luoghi, se ne fregano delle condizioni di vita e di lavoro degli inquilini cinesi”.

Perché accettano di lavorare senza nessuna sicurezza?
“Chi lavora a queste condizioni  –  sia i dipendenti che i titolari cinesi  –  lo fa perché non ha alternative. Chi emigra in Italia accumula un debito con i parenti in patria di 25mila euro e deve restituirli a qualunque costo. Non stanno lì perché i loro capi cinesi li schiavizzano, ma perché il mercato del lavoro italiano li ricatta. Le condizioni di sfruttamento della manodopera che vediamo a Prato in Cina sopravvivono solo nelle zone della produzione intensiva per l’export. I migranti cinesi si adattano a queste condizioni di vita, perché questo è quello che l’Italia è in grado di offrire: il mostro l’abbiamo messo in piedi noi. Ma, appena riescono, si emancipano dal far west del settore manufatturiero, privo di regole”.

E cosa fanno?
“Appena hanno ripagato il debito per il viaggio dalla Cina, cominciano l’accumulazione

 

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