“Per la giustizia è difficile provare dei fatti di schiavitù”

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Sulla sua testa pende una taglia, ma malgrado ciò rimane con le spalle ben dritte. A qualche settimana da un importante processo contro i membri della ‘ndrangheta, Marisa Manzini ribadisce la sua volontà di smantellare le reti di tratta di esseri umani in Calabria. La vice procuratrice del tribunale della provincia di Cosenza analizza gli ostacoli che rendono difficile la lotta contro le reti mafiose che hanno trasformato la migrazione in un lucroso business.

Recentemente ha arrestato dei membri della criminalità organizzata che obbligavano dei migranti a lavorare in un piccolo comune turistico. A che punto sono le indagini?

Marisa Manzini: Il 5 maggio scorso abbiamo smantellato una rete attiva nel villaggio di montagna di Camigliatello Silano, a una trentina di chilometri da Cosenza. Sono state arrestate 16 persone. Sono accusate di aver sfruttato una trentina di migranti per dei lavori agricoli e di essersi indebitamente appropriati dei fondi versati per il loro mantenimento. Il processo avrà luogo a Cosenza.

Cosa rischiano gli accusati?

La legislazione prevede sanzioni piuttosto precise. In caso di delitti minori, senza violenza, come il lavoro poco o non remunerato, gli autori rischiano da uno a sei anni di prigione. Se vi sono violenza o minacce, si passa da cinque a otto anni. E i casi avverati di schiavismo sono puniti con almeno dieci anni di carcere.

Queste pene sono dissuasive o dovrebbero essere più severe?

La legge è ben fatta. È l’applicazione che è discutibile. Le pene sono ancora troppo spesso pronunciate con la condizionale o alleggerite. Tuttavia molti restano comunque dietro le sbarre e una volta usciti possono essere oggetto di sorveglianza particolare.

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